Quando si parla di ansia da prestazione sessuale, la mente corre veloce verso un’immagine ben precisa: un uomo alle prese con la pressione di “durare abbastanza”, “fare bene”, “essere all’altezza”. È uno stereotipo talmente radicato da sembrare quasi ovvio.
Ma questa narrazione, così sbilanciata, lascia fuori metà del cielo: le donne.
Già, perché anche le donne vivono ansia da prestazione. La differenza è che spesso non hanno nemmeno le parole per dirlo. Non viene raccontata nei film, non è al centro delle conversazioni, raramente trova spazio nella rappresentazione culturale del desiderio femminile.
È un’ansia silenziosa, mimetizzata dietro un sorriso, o camuffata da "mancanza di libido", da dolore e da evitamento.
Eppure c’è, eccome. Vive nelle pieghe dell’intimità, si annida nei pensieri, si manifesta nel corpo.
È l’ansia di non piacere abbastanza. Di non essere desiderabili. Di non “funzionare” come ci si aspetta. Di non sapere cosa fare, come muoversi, come lasciarsi andare.
Il paradosso è che mentre la sessualità maschile viene raccontata come performance da valutare, quella femminile viene spesso trattata come un mistero da decifrare, ma in entrambi i casi, il piacere diventa qualcosa da dimostrare, da conquistare, da “saper fare”.
Ed è proprio in questa logica che l’ansia attecchisce.
È ora di ampliare la narrazione, di dare spazio anche a queste esperienze femminili troppo a lungo rimaste in ombra. Perché l’ansia da prestazione non ha genere, ma si veste con l’abito delle aspettative di ciascun corpo.
Perché colpisce anche le donne
Essere donne, oggi, è un po’ come stare in equilibrio su una corda tesa tra aspettative opposte: essere sensuali ma non troppo “esplicite”, essere naturali ma depilate, essere libere ma non giudicate. Una danza contraddittoria che entra, con prepotenza, anche tra le lenzuola.
Lì, nell’intimità, si insinua la paura di non essere abbastanza: abbastanza belle, abbastanza esperte, abbastanza desiderabili, abbastanza “brave a letto”.
È una tensione sottile ma potente, che induce a mettere sotto controllo ogni dettaglio: il corpo, le emozioni, le reazioni.
E così, anziché vivere il momento, lo si osserva da fuori, come se ci si stesse esibendo su un palco invisibile.
La mente si sgancia dal corpo, e prende posto in prima fila. Nasce così una forma di auto-sorveglianza mentale che ha un nome preciso: spectatoring.
Il termine, coniato dalla psicologa sessuale Virginia Johnson, descrive proprio questo fenomeno: essere dentro l’atto sessuale, ma con la testa altrove, impegnate a giudicarsi, analizzarsi, correggersi.
"Come sembro in questa posizione?" "Sto facendo abbastanza?" "E se lui si accorge che non mi piace troppo?"
Questa dissociazione spegne il piacere alla radice, perché per provare piacere bisogna sentirsi, non osservarsi.
Il corpo ha bisogno di lasciarsi andare, non di essere monitorato. Ma quando ci si sente sotto esame, anche se il giudice è dentro di noi, ogni sensazione viene filtrata, controllata, sterilizzata.
Lo spectatoring è un effetto collaterale della cultura della performance, del mito della perfezione sessuale, dell’idea che si debba “fare bene” anche nel letto.
Ma la verità è che il sesso non è uno spettacolo. E non c'è alcun pubblico a cui dimostrare nulla, se non il proprio sentire.
Recuperare la possibilità di stare davvero nel corpo, di essere presenti senza giudizio, è uno degli antidoti più potenti contro questo meccanismo.
Ma per farlo, serve riscrivere il copione: dal controllo al contatto, dal giudizio alla curiosità, dalla prestazione alla presenza.
Strategie per superarla: presenza, dialogo e cura di sé
L’ansia da prestazione non si risolve con un “rilassati” buttato lì.
Si attraversa, si ascolta, si disinnesca piano piano, con strumenti che non giudicano ma accompagnano.
Ecco alcune vie concrete e accessibili per iniziare a cambiare punto di vista.
1. Mindfulness e consapevolezza corporea
Quando la testa corre, il piacere inciampa. La mindfulness, cioè l’attenzione piena al momento presente, può diventare una vera alleata della sessualità.
Non serve meditare su una montagna tibetana: basta imparare a sentire il corpo, senza giudicarlo.
Ad esempio:
- fare una doccia consapevole, concentrandosi sulle sensazioni dell’acqua sulla pelle;
- praticare autoerotismo senza obiettivi, esplorando il corpo con curiosità, non per raggiungere qualcosa, ma per conoscersi meglio;
- respirare profondamente, portando attenzione ai suoni, odori, contatto, durante l’intimità.
Allenare questa presenza può calmare il giudice interiore, spegnere il pilota automatico e riaccendere il sentire.
2. Comunicazione autentica con il/la partner
Molte donne non dicono ciò che provano (o non provano) per paura di deludere, di sembrare “complicate” o “fredde”.
Ma è proprio il silenzio a rafforzare l’ansia.
Invece:
- condividere insicurezze rende più intima l’intimità;
- chiedere ciò che piace o non piace costruisce fiducia e connessione;
- dire “ho bisogno di rallentare” o “possiamo fare una pausa?” è un atto di rispetto reciproco.
Parlare di sesso non rovina la magia, la rende più vera. E quando ci si sente ascoltate, l’ansia perde potere.
3. Educazione e terapia sessuale
Spesso l’ansia nasce da un ignoranza indotta, da falsi miti (tipo “se non raggiungi l’orgasmo vuol dire che non ti piace abbastanza") o da esperienze negative mai rielaborate.
Rivolgersi a una educatrice o consulente sessuale non significa avere un “problema”, ma scegliere di investire nel proprio benessere.
In un percorso di questo tipo puoi:
- ricostruire una visione del sesso più libera e centrata sul piacere;
- lavorare sulle cause profonde dell’ansia;
- ricevere strumenti personalizzati, nel rispetto della tua storia e del tuo corpo.
Chiedere aiuto è un atto di potere, non di debolezza.
Cambiare punto di vista: il sesso non è una gara

Forse il problema più grande non è nemmeno l’ansia, ma il punto di vista con cui ci è stato insegnato a osservare il sesso.
Come se fosse un campo di battaglia dove dimostrare di essere all’altezza.
Una prestazione da misurare in orgasmi, durata, abilità. Una scena da interpretare secondo un copione altrui.
Ma il sesso non è una gara. Non ci sono giudici, né punteggi. Nessuno è in finale.
Il sesso, nella sua forma più autentica, non ha bisogno di spettatori, ma di partecipazione.
Può essere buffo, impacciato, interrotto da una risata o da un “aspetta un attimo”. Può essere fatto di gesti goffi, parole sbagliate, silenzi pieni. E va bene così.
L’intimità vera non si misura con la perfezione, ma con la presenza. Con la capacità di restare, di ascoltarsi, di essere lì, intere.
Quando smettiamo di “dover far bene” e iniziamo a sentire, allora il sesso torna a essere ciò che dovrebbe essere: un’esperienza viva, mutevole, profondamente umana.
Un territorio da esplorare insieme, senza mappe già tracciate, ma con la libertà di perdersi e ritrovarsi.
La sessualità femminile ha bisogno di sicurezza, ascolto e libertà
Per fiorire davvero, la sessualità femminile ha bisogno di terra fertile. Di un clima in cui non si debba temere il giudizio, ma ci si senta accolte.
Serve sicurezza, non nel senso della certezza, ma di uno spazio sicuro, dove poter dire: “questo mi piace”, “questo no”, “non so ancora”, “vorrei provare”.
Serve ascolto profondo: del proprio corpo, dei suoi ritmi, delle sue pause. Delle emozioni che salgono. Dei desideri che cambiano. Dei confini che si possono imparare a nominare.
E serve, soprattutto, libertà.
Libertà di non rispecchiare modelli. Di disobbedire ai copioni. Di non dover sempre “essere sexy”. Di poter essere lente, goffe, intense, vulnerabili, potenti. Tutto quello che siamo, anche tra le lenzuola.
La sessualità non è una prestazione da superare, ma un linguaggio da imparare con amorevole pazienza.
Non è una corsa verso l’orgasmo, ma un percorso di scoperta. È un giardino, e come ogni giardino, cresce se lo si cura con attenzione, se si smette di forzare e si inizia a nutrire.
Quando impariamo a guardarci non con gli occhi del giudice, ma con quelli dell’amante, qualcosa cambia davvero: il sesso diventa un luogo di verità. E il piacere smette di essere un premio… per tornare a essere una possibilità.
Giulia Grechi
Consulente Sessuale
Dottoressa in Riabilitazione Psichiatrica presso la facoltà di medicina e psicologia La Sapienza, con specializzazione in Consulenza Sessuale conseguita a la Scuola di Sessuologia e Psicologia Applicata.